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IL DIALETTO TRIESTINO

Con editto imperiale del 1749 Maria Teresa d'Austria concedendo privilegi e franchigie faceva del portofranco triestino che nel 1718 suo padre, Carlo VI, s'era illuso di far decollare, un vero e grande emporio dove, fatta salva da patenti di immunità a tutto campo, una folla di cosmopoliti piovve e si amalgamò con la voglia di arricchirsi e di costruire la Città nuova, Trieste, specie di Philadelphia d'Europa.

E smagliante veniva ad essere la comunicazione tra i diversi parlanti nel quotidiano approccio di lavoro. Una babele di lingue, infatti, percorse la città ingegnata a monetizzare anche il tempo dell'informazione per evitare rallentamenti e di conseguenza perdite di guadagno in quella che risultava essere una vertiginosa ed esaltante corsa alla ricchezza.

Tedeschi, slavi, greci, francesi, armeni, arabi, turchi, olandesi, dalmati, inglesi, veneti, ungheresi, friulani... genti d'ogni estrazione e ceto, imprenditori e avventurieri, milionari, uomini dabbene e malfattori, braccianti e artigiani, diplomatici e letterati, curiosi e viaggiatori annoiati: personaggi talvolta d'ingegno, spesso ingegnosi; tutti nella città voluta dal principe a raccogliere un'ultima sfida del destino, per avere ed essere nel contempo, spinti, senza badare a purezza d'eloquio a precisione di lemma, a intendersi fra loro e farsi intendere sui mercati mediterranei.

Irene Visintini, Rina Anna Rusconi e Claudio Grisancich

Ne deriva che non può tornare utile il dialetto latineggiante, da secoli in uso tra le poche migliaia di pescatori, artigiani e agricoltori stanziati entro la cinta muraria della vecchia Città, in quanto sugli scali del Mediterraneo erano abituati a cadenze e sonorità squisitamente veneziane, ne tantomeno può irrompere improvvisamente la troppo stentorea severità del tedesco.

Il testimone linguistico di una Serenissima ormai al tramonto viene così raccolto dagli uomini novi e subisce l'incursione pragmatica del nuovo linguaggio scabro, secco, incisivo e povero anche perché si serve di un vocabolario, quello degli affari, che mirando al concreto dei messaggi da veicolare, non apprezza sfumature o specifiche musicalità.

La lingua franca che si ottiene è un ideale omnibus linguistico dove fianco a fianco viaggeranno democraticamente i termini e le espressioni di tutte le parlate presenti sul territorio.

Nato dunque come lingua franca nell'emporio asburgico, il dialetto triestino matura in fretta l'esperienza letteraria che lo renderà adulto. Se ne incaricano, ancora venezianeggiando, Lorenzo Miniussi (1772-1839) con due godibili sonetti, il piranese Giovanni Tagliapietra (1805-1893) e soprattutto Alessandro Revere (1819-1878) con il poemetto Tergestiade. Ma l'iniziatore della letteratura dialettale cittadina è l'industriale d'origine istriana Giglio Padovan (1836-1894), a lui spetta il merito d'aver vestito il dialetto triestino di scrittura poetica. Bozzetista manierato e caricaturale, con lo pseudonimo di Polifemo Acca, firma una produzione fluviale che influenzerà lo sviluppo successivo della poesia dialettale sino a Virgilio Giotti e, per molti aspetti, sino ai giorni nostri.

Seguiranno negli anni altri poeti, tutti minori e taluni di buon mestiere. Si ricordano i nomi almeno di Adolfo Leghissa (1875-1957) e Flaminio Cavedani (1870-1950). Nel '900 occupano un posto di rilievo e fanno da corona a Virgilio Giotti i nomi di Guido Sambo, Anita Pittoni, Guido Cergoly, Manlio Malabotta...

(Claudio Grisancich)


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