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XII CONCORSO INTERNAZIONALE
"TRIESTE SCRITTURE DI FRONTIERA"
DEDICATO A UMBERTO SABA

Premiazioni dell'edizione 2009

Premi del PEN Club Trieste


INTERVENTO DI HUGO BECCACECE
di ringraziamento per il Premio del PEN Club


Signore e signori,

Ringrazio questo premio inaspettato e il generoso invito che mi ha permesso di essere oggi con voi in questo caffé nel quale gli avventori, soprattutto gli stranieri, giungono quasi in pellegrinaggio per respirare la tradizione storica della città e del microcosmo a cui siamo stati introdotti dal primo capitolo del libro di Claudio Magris.

Diffondere la cultura italiana in Argentina è parte del mio lavoro, ma è stato anche un piacere che unisce in sé molte motivazioni personali. Mio padre era italiano originario delle Marche. Fin dall’infanzia quella dell’Italia è stata una presenza assidua nella mia vita. E direi che lo è nella vita di tutti gli argentini.

Questo premio è intitolato «Scritture di frontiera». Dalla fine del diciannovesimo secolo, e soprattutto dai primi del novecento fino all’inizio della seconda guerra mondiale, il numero di migranti italiani che arrivarono al porto di Buenos Aires fu imponente e ciò ha lasciato un’impronta evidente nella vita quotidiana della capitale e di buona parte del paese. In una edizione degli anni dieci del novecento, l’Enciclopedia Britannica, nella voce dedicata all’Argentina, incorse in un errore notevole ma comprensibile. Vi si diceva che si trattava di un paese bilingue, dove si parlavano lo spagnolo e l’italiano. A distanza di un secolo la situazione è cambiata. Sono pochi i discendenti di italiani che attualmente capiscono e parlano la lingua. Chi la studia lo fa per motivi professionali o per compiere a ritroso il cammino percorso dai suoi progenitori e per le medesime ragioni. Eppure tutti danno per scontato di conoscere l’italiano, il che non è vero. Tale illusione è dovuta non solo alla somiglianza tra le due lingue ma anche a quella tra le due culture. Benché il territorio di quella che sarà l’Argentina sia stato scoperto e conquistato dalla Spagna, e nonostante il fatto che vi si parli lo spagnolo, direi che negli ultimi cento anni i suoi abitanti si sono nutriti molto più della cultura italiana che di quella iberica.

Per tali ragioni gli argentini sanno molto bene cosa significhino le frontiere e la fusione tra culture diverse. Quando si parla della popolazione dell’Argentina e in modo particolare di Buenos Aires si utilizza spesso l’espressione «crogiolo di razze». Spagnoli, italiani, turchi, siriani, libanesi, ebrei, tedeschi, inglesi e francesi si sono assimilati gli uni agli altri ed hanno creato l’attuale spazio culturale del paese. A questa immigrazione si è aggiunta, nell’ultimo decennio del novecento e nel primo del ventunesimo secolo, quella dai paesi latinoamericani, soprattutto dal Paraguay, dalla Bolivia, dal Perù e dal Cile.

Nonostante la distanza e le dissomiglianze della loro storia Trieste e Buenos Aires possiedono una caratteristica comune: la convivenza di tradizioni diverse.

La letteratura nazionale argentina si è alimentata fin dai suoi esordi di ciò che proveniva dall’estero e in primo luogo dalla Spagna. Ma già nel diciannovesimo secolo l’influenza francese divenne importantissima e soppiantò quella spagnola. Parallelamente si accrebbe l’interesse per tutto ciò che era italiano. Basti un esempio: il generale Bartolomé Mitre (1821-1906), presidente della Repubblica, fondatore della «Nación», il giornale dove lavoro, nel 1891 fece una traduzione in versi della Divina Commedia.

Al livello più popolare gli immigrati poveri vivevano in conventillos, case con un cortile centrale intorno al quale erano dislocate diverse stanze. In ciascuno di questi vani si ammassavano famiglie intere che condividevano l’unica cucina, l’unico bagno ed anche le lingue che non conoscevano, nelle quali si addentravano in modo primitivo per farsi capire dai loro vicini, e che combinavano con lo spagnolo, ingrediente essenziale, agglutinante delle espressioni che provenivano dall’italiano, dall’ebraico, dalle lingue dell’impero ottomano. Da questo materiale nacque la lingua degli argentini, ma sorsero anche la gastronomia, la cucina e perfino la nostra gestualità. I cortili dei conventillos furono in grande misura la nostra scrittura di frontiera. E non solo, diedero origine a molti sainetes, che riflettevano in modo spesso grottesco la vita quotidiana, e al cocoliche, una lingua fatta di scampoli di italiano, spagnolo, arabo, nella quale si esprimevano quelle genti valorose che, come naufraghi, avevano abbandonato le loro città e paesi lontani per sopravvivere. L’attuale espanglish. potrebbe essere considerato l’equivalente di quel fenomeno linguistico e letterario.

E noi che discendevamo da quegli esuli sempre colmi di nostalgia come potevamo non provare interesse per la storia delle terre che erano dall’altra parte dell’Oceano, se i ricordi del passato sorgevano di continuo nei racconti d’infanzia e di gioventù dei nostri padri e dei nostri nonni?

I primi versi che ho udito nella mia vita non furono quelli del Martín Fierro, di José Hernández, il poema nazionale argentino, ma quelli dell’Inferno di Dante. Credo si riferissero al Conte Ugolino della Gherardesca. Li aveva recitati mio padre. È sicuro comunque che io non li capii. In casa parlavamo spagnolo, raramente utilizzavamo l’italiano. Ciò rispondeva al desiderio di integrazione da parte di un immigrante che arrivò a scrivere in perfetto castigliano e ritenne necessario esiliare la lingua natia dalla propria casa. Di tanto in tanto egli citava versi da opere poetiche a proposito di fatti della vita quotidiana che associava a testi classici. E poi traduceva quei frammenti senza nessuna pretesa. Mio padre era un tecnico, però aveva studiato e imparato a memoria Dante e Leopardi nelle scuole elementari e alle superiori. Non c’era pedanteria in quelle citazioni. Fin da quando ero molto piccolo i nomi di quegli autori mi risultarono familiari, molto più familiari di quello di Borges, del quale sentii parlare per la prima volta quando ero già adolescente.

Noi che abbiamo fatto parte della gioventù inquieta degli anni ’50 e ’60 le nostre prime lezioni di letteratura europea le abbiamo ricevute attraverso il cinema. In quegli anni in Argentina si vedevano molti più film italiani che nordamericani o inglesi. E per di più avevano molto maggiore successo di quelli di qualsiasi altro paese. Il nostro cinema preferito era quello italiano e quello di Ingmar Berman. Avevamo familiarità con i nomi dei divi, dei registi, ma anche con quelli degli attori di seconda fila, degli sceneggiatori e dei costumisti. I film tratti da romanzi ci spingevano immediatamente a cercare i testi originali. Fu così che ci avventurammo nelle opere di Pavese, Gadda, Pratolini, Brancati, Moravia, Bassani, Pasolini. Più tardi naturalmente non abbiamo più avuto bisogno che il cinema ci facesse da guida, la curiosità ci spinse a ricercare in modo indipendente e a scoprire la formidabile produzione della letteratura del dopoguerra. Una volta saziata questa prima voracità, saltammo all’ottocento e risalimmo ancora più indietro nel tempo. Senso di Visconti ci fece ricercare la nouvelle di Camillo Boito.

E’ giusto riconoscerlo: per chi non aveva ricevuto in famiglia una educazione di tipo umanistico il maggiore stimolo per la conoscenza degli scrittori italiani venne dal cinema. Ovviamente venne pure dai supplementi e dalle riviste letterarie. In particolare quelle de «La Nación» e de «La Prensa» ed anche la rivista «Sur» fondata da Victoria Ocampo, il cui primo libro fu un commento della Commedia.

Ogni regione, ogni città italiana era associata a certi fatti e monumenti di rilevanza culturale. Roma alla Cappella Sistina e a Michelangelo. Firenze al David e a Dante. Milano e Napoli all’opera. Trieste era un nome più segreto e misterioso, riservato a chi vi fosse nato o a storici e letterati. Nell’immaginazione popolare evocava la tragica storia di Massimiliano e Carlotta, divulgata ancora una volta dal cinema. Per gli amanti della letteratura, questo nome geografico, così simile alla parola tristezza, ricordava le Elegie Duinesi di Rilke, la poesia di Umberto Saba, l’opera di Italo Svevo, i soggiorni del capitano Richard Burton e di James Joyce e, per chi conosceva l’ambiente dell’editoria, la figura di Roberto Bazlen recuperata nel 1983 da Lo Stadio di Wimbledon, il romanzo di Daniele del Giudice. C’era anche un particolare di non minore rilievo per chi era interessato all’arte. La pittrice surrealista Leonor Fini, nata in Argentina e, ad un certo punto protettrice di Héctor Bianciotti a Parigi, era cresciuta qui. Tutto ciò contribuiva a fare di questa città un centro di prestigio letterario, con un destino drammatico e mutevole a seconda dell’esito delle guerre. I pochi turisti argentini che arrivavano fino a queste coste parlavano di panorami bellissimi, e di un ambiente nel quale si poteva pregustare il sapore dello spirito slavo e allo stesso tempo si ravvisavano i tratti caratteristici dell’impero austroungarico. Ma nella seconda metà del novecento la frontiera su cui risiedeva Trieste era quella che divideva non solo due paesi ma due stili di vita, simbolizzati dall’espressione Cortina di Ferro, e ciò risvegliava al tempo stesso molte fantasie ma anche qualche sospetto.

La tradizione culturale mitteleuropea e quella balcanica ci risultavano piuttosto estranee. Da esse ci separavano soprattutto le lingue. In Argentina il tedesco non si parla molto, nonostante vi sia un’importante comunità germanica. Anche le lingue slave si sentono parlare poco e si potrebbe dire che vengono insegnate solo ai discendenti di famiglie di tale origine, con l’unica eccezione, forse, del russo.

All’infuori dei classici, cioè di figure come Thomas Mann, Hermann Hesse, Hermann Broch, Franz Kafka, gli autori del cuore d’Europa che venivano frequentati erano pochi. Stefan Zweig era molto popolare per le sue biografie e per i suoi romanzi, di Schnitzler si conoscevano solo Girotondo e La Signorina Else. Nell’ambiente letterario Joseph Roth era uno dei narratori austriaci più letti ed apprezzati. Degli ungheresi Ferenc Molnar era, credo, l’unico autore il cui nome, soprattutto come drammaturgo, non producesse sconcerto. E nonostante ciò oserei dire che furono molto pochi a sapere che Il Cigno, l’ultimo film di Grace Kelly, era tratto da una delle sue pièces teatrali. L’ignoranza era ed è ancora più grave nel caso degli autori dei Balcani. Dipendevamo e dipendiamo dalle traduzioni.

Due eventi culturali simultanei risvegliarono o ravvivarono l’interesse, non solo in Argentina ma nel mondo occidentale, per la Mitteleuropa. Nel 1986 il Centro Pompidou organizzò la mostra: Vienne: l’apocalypse joyeuse e Claudio Magris pubblicò Il Danubio. Ne giunse eco in Argentina, ma c’è voluto del tempo prima che potessimo soddisfare il nostro interesse. A poco a poco cominciarono ad arrivare le copie in italiano dell’opera di Magris e alla fine abbiamo avuto a disposizione la sua traduzione in spagnolo. Improvvisamente ci siamo resi conto, non senza un certo vertiginoso turbamento, che esisteva un mondo completamente sconosciuto per la maggior parte di noi. Questo tipo di scoperte generano entusiasmo ma anche angoscia e senso di colpa. Con quante culture, con quante regioni del mondo ci accade la stessa cosa? Borges, quando gli parlavano della decadenza della letteratura contemporanea – egli non lesse nessun autore del dopoguerra e non solo a causa della cecità - diceva sorridendo: «Da scoprire c’è sempre il passato». Magris ci ha fatto esplorare un vasto territorio spirituale del quale non avevamo quasi notizia. Ci ha mostrato la ricchezza delle frontiere e delle mescolanze seguendo il corso di un fiume, ci ha fatto cercare sulla carta geografica nomi che non sapevamo pronunciare, visitare librerie dell’usato nel tentativo di trovare libri che prima avremmo scartato con insofferenza.

Credo di conoscere solo due persone, e più precisamente due scrittori, che vivono a Trieste. Uno è Claudio Magris, che ho intervistato a Parigi nel 2003, e che vidi quello stesso anno diverse volte a Buenos Aires. L’altro è Juan Octavio Prenz che nacque in Argentina, nella città di La Plata. Prenz, presidente della giuria di questo premio, ho avuto modo di incontrarlo soltanto due volte, però l’ho frequentato come Magris in qualità di lettore. Il suo è un caso di uomo di frontiera non solo perché si è stabilito qui, ma per la sua storia, affine a quella di non pochi argentini della sua stessa generazione e di pari dignità. La sua storia è simile per certi versi a quella di mio padre, che lasciò l’Italia perché gli era impossibile trovare lavoro senza la tessera del partito fascista (iscriversi al partito per lui era fuori questione). Alcune persone sarebbero incapaci di attraversare certe frontiere morali e per questo si sentono obbligate a varcare confini geografici. In questo modo entrano in contatto con uomini e donne di altre nazioni, di altri continenti, comprovando così che indipendentemente dalla nostalgia della terra perduta, l’unica patria irrinunciabile è quella dell’uomo. Non tutti hanno questo coraggio.

Oggi sembra che gli strumenti tecnologici abbiano fatto scomparire i limiti, abbiano cancellato lo spazio, mescolato le lingue, le abbiano falsificate, abbiano omologato i comportamenti e i costumi. Le punte avanzate del gergo informatico feriscono e invadono la lingua scritta e quella colloquiale. Vengono create continuamente parole nuove che muoiono quasi appena nate. I fenomeni migratori mondiali danno origine a lingue ibride come lo spanglish, equivalente al cocoliche dei conventillos a cui ho fatto riferimento prima. L’inglese è divenuto lingua franca e ciò comporta il protagonismo assoluto della letteratura anglosassone. Le altre letterature sono costrette a lottare duramente per trovare diffusione in traduzioni e per conquistarsi una certa visibilità in giornali, riviste, cinema o TV. È nei mezzi di comunicazione che l’accelerazione di questi fenomeni diviene più vertiginosa. In ogni paese si conoscono gli scrittori nazionali contemporanei, ma molto poco quelli dei paesi vicini, per non parlare di quelli di altri continenti e tradizioni culturali. E ovviamente quelli che scrivono in inglese (nordamericani, britannici, australiani, indiani).

Così come abbiamo a disposizione qualsiasi tipo di informazione con un semplice clic, allo stesso modo possiamo arrivare a disistimare la divulgazione di fatti culturali di qualità per sottometterci alle leggi del mercato, all’imperio delle maggioranze, delle tendenze, e soprattutto del clic che può essere calcolato e quindi, per motivi puramente statistici, esalta o sacrifica qualsiasi cosa indipendentemente dalla sua qualità. Il panorama è confuso e contraddittorio. Il fatto positivo è, come ho detto, che ogni informazione è a nostra disposizione con un solo clic. E questo ci autorizza a sperare che in qualche luogo dell’oceano virtuale ci aspetti il testo che ci è destinato e che non il caso ma il destino ci guiderà nella sua direzione.

Un supplemento letterario o una rivista culturale di un grande quotidiano devono rispondere inevitabilmente alle esigenze dell’attualità e agli impegni editoriali. Esistono modi per farlo con una certa dignità e strategie che consentono di segnalare ai lettori le opere che vale veramente la pena leggere. Le restrizioni di spazio però sono sempre maggiori e l’alta cultura è vista sempre peggio. Le sezioni bibliografiche devono cedere il posto a ciò che è più popolare cioè alla musica, non precisamente classica, ai comics e alla televisione. In Argentina il materiale che ci arriva ogni mese dalle case editrici più importanti è scoraggiante. I titoli rispondono alle leggi di mercato ed hanno poco a che vedere con la letteratura. Quello che invece riceviamo dai piccoli editori, che non sono in gara per accaparrarsi firme che assicurano milioni di copie vendute, è di qualità sempre migliore. Ad esse dedichiamo, nella «Nación» uno spazio in proporzione più ampio di quello dedicato ai grandi gruppi editoriali. Ciò non significa che nella lista dei best sellers su sei titoli tre non siano di Dan Brown e dei suoi imitatori. Accade raramente che una critica positiva possa imporre un autore poco noto sul mercato letterario. L’ultimo caso, e che più ha richiamato l’attenzione a Buenos Aires, un caso di passaparola, è stato quello di Sandor Marai. All’inizio dalla Spagna mandavano quindici copie de Le Braci ogni quattro mesi. Poi si passò a trenta ogni tre mesi. Ma la domanda cresceva. Azzardarono a spedirne trecento, poi seicento. Oggi le tirature di tremila esemplari di qualunque romanzo di Marai si esauriscono in quindici giorni. È diventato un long seller.

Questa situazione fa sì che non sia facile dedicare la dovuta attenzione ai libri di autori italiani e del centro Europa. Chiaramente non parlo di nomi celebri come Umberto Eco, Claudio Magris, Andrea Camilleri e Oriana Fallaci che con i suoi pamphlet ha venduto molto. Direi che negli ultimi anni ciò che ha suscitato maggior interesse da parte del pubblico specializzato sono le opere di pensatori come Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Toni Negri e Gianni Vattimo al punto che essere di nazionalità italiana è sufficiente per un filosofo per avere assicurato un minimo di lettori universitari.

Ogni frontiera è in relazione con un’epoca storica. I triestini lo sanno fin troppo bene. La frontiera che dobbiamo affrontare oggi non è segnata su nessuna carta geografica; è un confine nel tempo, quello di un cambiamento profondo che riguarda tutti gli ambiti della nostra vita dovunque noi siamo. Non mi riferirò alla globalizzazione in questo premio contrassegnato dalla parola «frontiere». Ma di questo in realtà si tratta.

Torno alla figura di mio padre. Grazie a lui ho saputo che esisteva Trieste. Egli qui non venne mai. Amava i parchi, i giardini e i boschi. Mi parlò di questa città non per i suoi scrittori ma per i giardini di Miramare, sui quali sapeva tutto ciò che era possibile sapere in quel momento, e per le cicatrici che le guerre gli lasciarono nella memoria. Aveva quattordici anni quando terminò la prima guerra mondiale. In ciò che diceva si sentiva il fascino ispiratogli da queste terre dall’identità mutevole, che potevano cessare di essere Italia seguendo la logica dei cannoni, questo mondo di transizione nel quale ci s’addentra senza quasi rendersene conto a mano a mano che si sale con la funicolare verso Opicina, o dove si giunge alla ricerca di una spiaggia che era Fiume ed ora è Rijeka. Non erano queste le frontiere che lui avrebbe attraversato. Il suo destino non era nell’Adriatico ma dall’altra parte dell’Atlantico.

Quando, è già qualche anno, visitai Trieste per la prima volta e passai in Slovenia e poi in Croazia, attraversai le linee immaginarie e delimitanti che separano un paese dall’altro per soddisfare la mia curiosità di viaggiatore ma anche il suo anelito all’avventura e al mistero. Lo feci come intimo omaggio a quell’uomo che non ebbe paura delle frontiere e per il quale oggi sono qui.

Grazie

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